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2 octobre 2005 7 02 /10 /octobre /2005 00:00

Sbagliano quanti pensano che io, con il mio atto estremo, li  richiami a un dovere omesso. La mia è semplicemente una richiesta di solidarietà. Una pratica sempre più spesso obsoleta. Ma anche una richiesta che nella dilagante catastrofe dell’umano sempre più spesso si fa mortifera: come l’ammalato di Aids che contagia la fidanzata per essere insieme fino alla fine (ma a volte succede il contrario: ed è la vittima che sceglie l’abbraccio mortale). E alla fine, in determinate condizioni, tutto ti ammazza. Anche i fiocchi di neve (se l’Armata si ritira a piedi nell’inverno russo…).

Sì, la gente ha perso il piacere della solidarietà, non conosce più la gioia dello sguardo scintillante della proletaria di Montreuil. Penso ai miei amici e compagni dell’isola di Oleron, che gestiscono un asilo anarchico. Li hanno sbattuti in galera perché avevano accettato i bambini di militanti baschi ricercati: e loro ci sono andati sorridendo. Che soddisfazione, vivendosi questa storia senza aura di martirio, perché la solidarietà non è un dovere o un sacrificio ma un’anticipazione dell’ambita comunità umana possibile.

Nella perversione dei sensi e dell’intelligenza succede anche il contrario: che il “beneficato” ti vampirizzi, anzi addirittura ti impedisca di esercitare questo piacere. Ve lo immaginate Cohn-Bendit che si incazza davanti ai trentamila che nel Maggio francese sfilano gridando “Siamo tutti ebrei tedeschi”? Non mi risulta che, quando Cristiano X, re di Danimarca, si appunta sul pastrano la stella gialla per solidarizzare con i suoi sudditi minacciati dagli occupanti nazisti, ce ne sia stato uno solo che l’abbia apostrofato: “Come ti permetti, tu non sei ebreo!” *. Almeno Totò, mancato suicida, ha permesso a Cervi di salvarlo prima di dargli il tormento dovuto ai benefattori…

Io lo conosco bene il loro dispositivo. Si sentono colpevoli perché non ci hanno pensato loro a farlo. Ma mica gli passa per la testa che ce ne sono tante altre di cose da fare. O, al minimo, strumentalizzarla: tranquilli, non mi offendo. Per me questa cosa vale in quanto tale, è solo una grandezzata. Ho testimoniato abbondantemente in un ampio arco della mia vita che non me ne è mai fottuto niente della conferma del successo pubblico. A me è sempre bastato il riconoscimento dei pari, la mia costellazione segreta. Be’, su quello, lo ammetto, ci tengo, fino a peccare (venalmente) di settarismo. Ma qui si tratta di scontrarsi con i rischi dell’altrovismo. La generazione del ’68 soffre manifestamente della sindrome da suicidio delle balene. Certo, è una generazione cresciuta in nome del paradosso. Del vietato vietare, del realismo di chiedere l’impossibile, dell’abbasso il lavoro. Paradossi che poi si sono arrovesciati nella prassi. E così il valore del lavoro si è trasmutato dal marxiano valore di scambio della merce forza lavoro in un principio etico. Al cui capolinea c’è l’epigrafe di Auschwitz, l’Arbeit match frei. O alla sua banalizzazione populista del chi non lavora non mangia. Così il nostro Vogliamo tutto. Alludeva alla riappropriazione, all’autonomia possibile non all’unità dei contrari, vogliamo tutto e il contrario di tutto. Pretese che superano la soglia dell’abiezione. Pensate allo stato maggiore della dissociazione lottarmatista. Una gara tra giganti del maleficio. Difficile, veramente difficile stabilire chi è il peggiore.



Antisemitismo e vittimismo

Ci sono alcune cose che per me sono abbastanza evidenti. Sono convinto che è vera la frase di Tronti prima la classe operaia poi il capitale, quelle cose dense ed enigmatiche. Tanto vale se a uno lì per lì gli sembra una bizzarria prenderla così e ripensarci. Così sono convinto che l’espressione di Sartre nella Questione ebraica è folgorante: l’antisemitismo viene prima dell’ebreo. E’ più universale, consustanziale tra nature, culture, storia, è già bisogno per ognuno di avere il suo Caino personale per sentirsi Abele, da stramaledire o persino da perdonare. E’ il rito antico – come dice Guagliardo – del capro espiatorio, così come la figura del totem, dello zimbello, l’uccello sacro, e tutto questo fondo istintuale messo in forma. Una volta che si può –  come dice Severino –  parlare dell’olos, dell’essere parmenideo, ma siccome Parmenide  aveva un nome, si chiamava Parmenide, anzi lo chiamavano, ormai la cosa era tutta già fatta, ci si era già gettati fuori dall’olos mare calmo.  Se davvero fosse così nel nirvana zen del tutto/nulla evidentemente non verrebbe messo in forma e scritto, se lo scrivi, la nostalgia è solo così. È già tutto successo, ormai è fatta.

Quando sento che serpeggia l’idea di popolo classe e trasuda perfino dalle vignette di un Vauro, da battute che leggo, che sento nelle compagnerie, così diffuso e ridiffuso, sono le matrici. La storia dell’antisemitismo è lunga, ma è proprio il capro espiatorio. C’è l’uso del divide et impera, il pogrom come diversivo, la guerra tra i poveri, e l’imbestialirsi di quelli che la vivono. Io stesso ho visto all’opera questo meccanismo in tante situazioni: noi, le BR, il complotto, mani pulite.

 IMG: Un perro andaluz L. Buñuel

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27 septembre 2005 2 27 /09 /septembre /2005 00:00

Nello sciopero della fame ci sono due fasi: la messa a rischio e poi il catabolismo. Io sono contrario a chi corre in moto ma ritengo che l’idea del rischio zero che ci viene continuamente propinata è della stessa portata distruttiva della buona intenzione di sradicare il male dalla storia senza nemmeno passare per un Dio.  Penso alla promessa di felicità insita nei moderni messianismi: dal liberismo alla Smith, con il suo feticismo della potenza regolatrice del mercato, ai preti bolscevichi (fosse anche nella versione lassalliana: dove il feticcio diventa lo Stato), dai padri della Costituzione americana, la cui base materiale è le ferma credenza, scritta a chiare lettere nel dollaro, che “Dio è con noi” alle tante promesse di Paradisi terrestri utopici o cronici.

No, il rischio zero ti porta a morire di fame in casa, per paura di finire con la testa rotta dalla tegola che aspetta il tuo passaggio per cadere. Una volta ucciso Carlo Giuliani – o via via a risalire nel tempo di generazione militante in generazione militante Francesco Lo Russo o Saverio Saltarelli o i morti di Reggio Emilia – se ne dovrebbe dedurre allora che non si fa più una manifestazione. Mi turbano le ricorrenze e le ricorrenze delle ricorrenze ridotte a occasione per martellare un’indignazione a fini propagandistici i cui esiti oscillano tra la serenata a se stessi e l’autoterrorismo.

Ben più tragica fibra ha il catabolismo dello sciopero della fame. Perché finiti i grassi, il fabbisogno di calorie ti attacca i muscoli e ti brucia il cervello. A questo punto anch’io tremo un po’: come se Maraini avesse deciso di continuare, sotto i riflettori televisivi, a farsi a fette nel teatro dell’anticrudeltà. Mi è venuto a mente di colpo, con un po’ di vergogna, nei giorni scorsi, al crematorio di un cimitero di Parigi, il Père Lachaise, una sala sinistra, da loggia massonica, con la triste pretesa di imitare la grandiosità di una cattedrale. I compagni mi hanno chiesto di suonare sommessamente Addio Lugano bella, prima che bruciassero la salma di una militante proletaria, la moglie di Giuseppe, un immigrato siciliano di Montreuil, mio coetaneo ed amico, arrivato in Francia con i genitori cinquant’anni fa. Mi è venuto a mente il giorno che l’ex marito venne a prenderla a casa per portarla a operarsi del cancro al polmone che l’ha poi ammazzata. A casa loro, erano i giorni del Paris Social Forum, ospitavano ai materassi una quindicina di compagni del Sud Ribelle e dei Cobas (ricordo Antonino Campennì di Radio Ciroma e Vincenzo Miliucci). E a lei ridevano gli occhi per la gioia: convinta che rital (italiano nel parigino popolare) e rivoluzionario fossero sinonimi.

Negli ultimi dieci giorni di vita ha chiesto di andare in un centro palliativo perché tutti i compagni potessero andare a salutarla e io non ce l’ho fatta ad andarci per lo sciopero della fame. E così, tra le lacrime dei presenti, mi è toccato di testimoniare, insieme al compagno, ai genitori, ai figli, la sua contentezza di fare una cosa terribilmente rompicoglioni. Tutti abbiamo conosciuto  persone dal grande cuore ma che non si prendono dal cuore, ma tutte queste cose sono rare in una persona.

Mi è venuto di pensare al “tempo di nostra vita mortal… quando gli occhi ridenti e fuggitivi”: questa donna aveva il cuore negli occhi. Così mentre suonavo mi sono un po' vergognato a pensare che cosa sarebbe successo se avessi fatto in tempo ad andare a trovarla. Be’, alla fine penso che se lei mi avesse detto, tutto quello che altri, senza titolo, senza onore, mi dicono: “Ma come, Oreste, io lotto per guadagnare un’ora di vita per salutare un altro compagno e tu ti affetti il dito e lo servi in tavola…” avrei finito per dirle una bugia ma non potrò mai raccontarmi la favola che è una storia bella, pulita e luminosa.

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26 septembre 2005 1 26 /09 /septembre /2005 00:00

Questo aspetto della violenza (in questo caso) è il primo limite dello sciopero della fame: l’essere cioè un’extrema ratio che non può essere separata dall’urlo di autonomia, fino all’autismo. Lo stesso aspetto di irriducibilità – diluita fino allo stillicidio – insito nell’anoressia, uno sciopero della fame a oltranza, seppure a bassa intensità. C’era una forza assoluta in Jan Palach (e poi in Bobby Sands) o nei bonzi vietnamiti, che si esprimevano in altri codici: ma l’Unità della mia adolescenza li traduceva nei termini necessari e sufficienti per la quotidiana battaglia politica. Certo, ce ne vuole per avere la forza di non rivendicare niente.

Come Diogene. Per replicare all’Alessandro di turno che ti tenta con il brutale “A Fra’, che tte serve?” con un geniale “Grazie, basta che ti levi dal sole”.

Come il Bartleby di  Melville. Il suo “Non sopportarvi più un minuto”  - in inglese è ancor più potente: “I ‘ll like not too” e mi tenta sempre più spesso -  è un buon viatico per cominciare a lasciarsi morire.

O Mishima, con i suoi codici diversi, e non solo perché fascista. Ci faceva impazzire quel compagno giapponese di Potop (ne è passata di gente da noi…) che ci spiegava che per scioperare nel suo paese gli operai si mettevano una fascia in testa. Per me era incomprensibile come per loro lo scorno del padrone fosse più efficace del danno alla produzione. Eppure era vero: quest’impatto si rivelò, infatti, vincente, per Fosco Maraini. Internato con la famiglia dopo l’8 settembre, vedeva i suoi avviarsi alla morte per stenti. Così si recò dal comandante del campo e senza profferire parola si tagliò un dito. E subito furono aumentate le razioni.

Anche Pannella sa bene del rischio di autismo. Eppure anch’egli ha qualcosa di grande: lo sciopero della sete per uno con il suo cuore è un consapevole “o la va o la spacca”. Qualcuno poi maliziosamente potrà vederci un estremo gioco da artista, la ricerca della morte in palcoscenico. Come Berlinguer, che se l’è trovata.

Tutti lo sappiamo e dobbiamo dircelo, ma c’è anche la dipendenza dispotica del neonato che urla oltre lo sfinimento. E allora sono tante le immagini letterarie che si possono sovrapporre: la partita a scacchi del Settimo sigillo, la Signora delle camelie. La fine può essere tragica. Lo deve ben sapere il duro del piccolo partito della fermezza che al mio urlo replica invocando la facoltà di non rispondere, lasciandomi l’unica alternativa tra durare un minuto di più o cedere. Ma io non sono la Thatcher: e quindi dovrei fermarmi, non senza risentimento. Ma quello, per me, avrebbe finito di pontificare. Una fibbia “giapponese”: non la morte fisica, quindi, ma nel mio foro interiore. Per fargli sentire, ogni volta che tornerà a prendere la parola, un assillo.

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20 septembre 2005 2 20 /09 /septembre /2005 00:00

E devo dire che sono indignato quando si apre un dibattito come quello su violenza e non violenza, con Revelli, che fa delle osservazioni interessanti ma ha un blocco per cui dice che effettivamente bisogna mettere in discussione tutto l’impianto e le mistiche del ‘900 del cominternismo* ma, siccome non vuole prendere in considerazione  altro, gli trema la terra sotto i piedi se gli manca un mito rivoluzionario. Poi Bertinotti, Ingrao. Sì uno potrà dire: magari Bertinotti lo fa nel momento sbagliato proprio quando vuole andare al governo, lo fa addirittura per quello, ma in qualche modo esprimono una ricerca attorno a questi temi. A me sembrano deludenti le risposte come se niente fosse successo.
 

Edoarda Masi riesce nello stesso articolo a fare del negazionismo sui milioni di morti della rivoluzione culturale e poi a scatenarsi contro le Br. Poi c’è quello che fa marxismo dalla cattedra come Burgio e ritira fuori questa specie di giaculatoria mentre è impensabile il discorso della non violenza. Non si può nemmeno pensare che ci possa essere una rivoluzionarietà con tutti gli attributi a posto e quindi la violenza è necessaria, sì, la violenza differita e come no. poi però la risultante è che sia illegalitaria.  Loro non sono forcaioli ma legalitari, su un piano di immanenza. Oggi non si fa credito domani sì,  ma poi non si fa nemmeno il disordine che la non violenza attiva può fare. Tutto questo poi lascia spazio a cose molto più gravi.
 

Nicola Tranfaglia riesce a scrivere sul Corriere della sera in dieci righe: no, no garantisco io nell’Ulivo non ci sono più nostalgici del comunismo,[intende per comunismo quello del gulag e per ribadire dice] nemmeno Cossutta, ma quando mai? Invece, semmai, Bertinotti! Bertinotti, capite? Che non è stato mai comunista, semmai luxemburghiano. E poi, aggiunge Tranfaglia, perché lui ancora chiacchiera di Marx e della lotta di classe, il gulag va ricondotto a Marx, Stalin e le foibe non si devono toccare, e quindi, lo porto come esempio, garantisco io per Cossutta, ma attenti a Bertinotti! A questo punto viene fuori la pista. Io penso ed enuncio solo i titoli, che se vogliamo discutere di teoria partiamo da ciò e vediamo le matrici. Quando arrivo alla polpa, alle cose che non si dicono per pudore fino a giungere al limite del crimine prima intellettuale che etico di rinfoderare o inibire la critica perché chi parla pubblicamente è della tua famiglia, della tua tavolata, mi trovo costretto a lanciare un appello: mi volete sentire e dare una risposta? Giunto al punto estremo dell’ambivalenza dello sciopero della fame, devo dire che non posso che rifarlo e lo rifarei, ma bisogna anche guardare al brutto. Sono due o tre le cose che devo dire per quelli – e sono miliardi – che la fame non la scelgono ma la patiscono. Così come a quelli, reali o immaginari, passati o presenti, che invece nello sciopero hanno messo in gioco i loro corpi. C’è un bellissimo canto di lotta del primo movimento operaio, Batton l’otto, che racconta la storia dello sciopero delle acciaierie di Terni, all’inizio del secolo scorso. E allora sì, la risposta allo sciopero era la serrata. E per resistere un minuto di più si decise di mandare i bambini presso le famiglie operaie del Nord. Cinquant’anni dopo le mondariso cantavano con orgoglio: coi nostri corpi sulle rotaie abbiam fermato il nostro sfruttatore. C’è del grandioso nell’atto di non erogare forza lavoro, il buttar via, fosse anche per un attimo, il destino operaio, simile a quello della prostituta che affitta il suo corpo a ore (lo affitta, non lo vende: quella è la schiavitù)…

Lo sciopero è anche un momento di festa, un tornare uomini e donne nel black out del funzionamento sociale, come nella Comune raccontata da Henry Lefevbre, come nella testimonianza della dipendente del McDonald di Parigi che davanti alla telecamera confida: ci siamo affezionati allo sciopero. Il picchetto e l’occupazione si ripeterà sempre nella sua ambivalenza: come autonegazione di una condizione di minorità, come prefigurazione della comunità umana possibile.
 

Lo sciopero della fame è al tempo stesso più povero e più lussuoso. Niente è perfetto, ma c’è potenza dispiegata nel suo “vorrei ma non posso”. Come nella rapina. L’atto di sottrarre la quintessenza della merce, il traduttore universale, la merce chiave della merce, liberandolo dallo spazio coatto in cui è detenuto, tra sbarre, portelloni di acciaio e guardioni armati, per me resta sempre un gesto di altissima moralità. Meglio ovviamente quando attinge la sfera della purezza: nell’esercizio della falsificazione o, nella sfera virtuale ma strapotente della circolazione immateriale, nella forma dell’hackeraggio. La pistola puntata sulla vecchietta che ritira la pensione,sull’impiegato o fosse anche sul panzone armato - fosse anche di una scacciacani - allude anch’esso a qualcosa di brutto: ma nulla è perfetto.



Il congresso di Baku

E allora si torna a Baku, al congresso dell’Internazionale negli anni ’20 in cui ci fu l’apertura tatticamente geniale in cui si coopta Kemal Atatürk, quello che in fondo era un protofascista nel senso del modernismo fascista, il modernizzatore laico della Turchia, tra il giacobinismo che evolve passando per Bonaparte e quello dove arriva. Bakù è il momento in cui il Komintern gioca questa carta, come tattica la potresti anche capire, come si potrebbe perfino capire il socialismo in un paese solo, o arrivare a quelle parole d’ordine là, ma la cosa più abietta è nella scena chiave che Koestler racconta in Buio a mezzogiorno. Il dialogo in cui Rubaciov è protagonista e che ricorda in flash back quando sta lui alla Lubianka. Il vecchio commissario politico bolscevico era andato a notificare al giovane clandestino del partito comunista tedesco di Amburgo che viveva nascosto facendo il proiezionista come in Nuovo cinema paradiso,  l’espulsione dal partito perché non si era riconvertito rapidamente e non era stato d’accordo con il fatto che da un giorno all’altro bisognava diventare crumiri, passare dall’essere i più coraggiosi nel boicottaggio a rompere lo sciopero perché era stato firmato il patto Molotov-Ribbentrop. Il fatto si potrebbe ancora capire, ma di colpo chi era turbato, diventava sospetto, traditore. Terracini se l’è cavata per il rotto della cuffia, ma Valiani racconta che da un giorno all’altro tremila comunisti di Ventotene gli tolsero il saluto, e non è che erano cattivi, erano manipolati, una mostruosità contro sé stessi innanzitutto. Così settant’anni dopo si recupera Bakù, potrebbe andare come tattica ma diventa un’etica, Zinoiev che leva la spada e dice che l’Islam è rivoluzionario intrinsecamente, sono cose che durano da allora.

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5 septembre 2005 1 05 /09 /septembre /2005 00:00
 

A cavallo del secolo e del millennio c’è un ripresentarsi di tutto questo, in forme ancora nuove e sembra quasi che la secrezione di discorso – basterebbe sfogliare alcuni giornali, o fare una carrellata che cataloghi gli slogan dei movimenti – sia come un trionfo della pretesa, l’affermare in modo passionale ed etico, un indirizzo alla contraddizione sistematica. E’ una specie di caosmosi* delle parole, in cui si tira fino all’estrapolazione massima, per poi affermare tutto e il contrario di tutto.  Da qui potremmo prendere dei sintomi grossi, degli esempi, tutto quello che è avvenuto attorno ai new global e a Genova, e arrivo ad un ultima cosa, tornando alla violenza.

Se c’è una cosa che trovo atroce e con cui dovremmo fare i conti, perché se no è inutile parlare dell’amnistia, tentare di osare sperare, è che non è possibile nessun briciolo di tolleranza nei confronti di un discorso che metta in fila due cose come

1) la demonizzazione totale dei casseurs, che magari spaccano una vetrina disturbando e per i quali non solo ci si spinge a invocare la polizia, ma che vengono visti ormai come l’impensabile se non ridotti a marionette,

2) lo sfoderare tutti gli argomenti di tipo minimizzatore, indulgente, fino ad una comprensione anche minima dello stragismo.

Una cosa impensabile per uno che si dichiara comunista. Perché questa cosa può essere motivata da un presupposto religioso come per gli islamismi, o dal principio di nazionalità, che non è nemmeno quello della tradizione, ma giacobino che legittima la violenza. Beh, io pensavo che noi alcune forme d’azione – lo stupro etnico, la tortura, le crudeltà e la strage – le escludessimo in assoluto, ora pare di no. Ma allora francamente per me è molto meno motivato, a parità di mezzo, uno che vuole uno Stato a bandiera, grande, piccolo, contro quello o contro quell’altro, o che vuole affermare una religione perché sono essenzialismi senza speranza in cui il fratricidio è all’infinito con il gioco di Abele e di Caino. A me pare un motivo mille volte più importante se uno ricorre alla violenza contro il rapporto di capitale e la forma Stato. Allora sì vale, letteralmente, la pena di sporcarsi le mani, con la speranza di mutare lo stato di cose presenti.



Caosmosi

Un discorso che va benissimo, fermi tutti.  Ma più che principio di precauzione è proprio totale rifiuto degli organismi geneticamente modificati, in chiave di anticapitalismo finanziario e delle multinazionali. Ma lo si fa dicendo cose che sono inverificabili, gli scientisti di destra e di sinistra ti obiettano che è apocalittismo. Quello possiamo capirlo anche noi: la sussunzione rende sempre più dipendenti i soggetti umani, al punto che il contadino del villaggio africano non può nemmeno più rifugiarsi nell’autoproduzione perché oramai il ciclo delle sementi è geneticamente modificato.

Se questo discorso funziona, allora si deve fare un’epochè rispetto ad un tecnolibertinismo che rischia di mettere in mano a una multinazionale come Monsanto o a uno Stato o a un futuro Menghele addirittura il controllo privatizzato o statizzato del genoma umano, al che vengono in mente immagini di fantascienza alla Huxley. Al contempo si deve fare un’epochè rispetto alle tesi di chi sostiene che il velo è una difesa della tradizione culturale, un’espressione anticolonialista.  Così non si riesce a discutere per cercare di capire come si possano rendere compatibili il problema del corpo e della vita delle donne per cui il velo è oppressivo, e quello delle altre donne  per cui è un’altra forma di oppressione il volerglielo strappare.

Ecco questa specie di non consapevolezza che diventa tracotanza nel pretendere di dire tutto e il contrario di tutto, riducendosi come dei politicanti che devono vendere delle merci comunque, è il disastro che avanza, e per me è l’ossessione.

IMG: Francis Bacon

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31 août 2005 3 31 /08 /août /2005 00:00

Quello che poi accade è un disastro. Ritorna un bisogno di impegno, il sacrosanto senso di rivolta e di disgusto. Si riempie questo bisogno di lottare contro i bombardamenti, la guerra del Golfo,  prendendo a prestito una eticizzazione forzosa di elementi di pura grande tattica imperiale che aveva potuto avere anche Pietro il grande, che era stata quella del cominternismo fino a Stalin*.

L’altro ingrediente trasversale che lega tutto è l’ossessione penale, l’antiterrorismo che poi trapassa per legittimarsi, perché uno se vuole legittimare i precedenti del peggio lo farà sulle figure più odiose. L’elemento populistico è forte, e allora ecco Mani pulite, il manipulitismo. Ben presto questo vittimismo, colpevolizzante e giustiziere, passa da una forma in qualche modo diretta, anche se subalterna e omologica, alla delega penale, e li ci può entrare di tutto.

Sotto ci può essere un’idea di capitalismo pulito e perfino un punto di vista da logica degli istituti di governo del capitalismo internazionale che dice adesso basta l’eccezione di questa Italia che è mantenuta sopra ai suoi mezzi perché era una piattaforma interessante nell’epoca della guerra fredda, una marca di frontiera che ha pompato soldi da tutti tra Togliattigrad e l’Occidente, tra l’Europa e la vocazione filoaraba mediterranea, basta di mantenerla come una cocotte di lusso e quindi i conti devono tornare. E così va benissimo Mani pulite, e poi le ideologie rossobrune, e così va bene a quelli che per imperizia delle membra o non esistevano (come la Lega) o erano fuori dai giochi (come i fascisti), e quindi ci si buttano. Ci salta dentro – con l’idea di una specie di scorciatoia un po’ putchista   anche l’ex partito comunista che così strappa la vittoria che Craxi pensava di aver ottenuto a seguito del crollo del muro e dell’Urss. L’ex partito comunista rilancia la diversità comunista, quella di coloro che incarnano la questione morale, il partito degli onesti. Il più grave è l’elemento populistico, il contagio per cui riescono a cooptare finanche i compagni con la kefia.
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*Il congresso di Baku

E allora si torna a Baku, al congresso dell’Internazionale negli anni ’20 in cui ci fu l’apertura tatticamente geniale in cui si coopta Kemal Atatürk, quello che in fondo era un protofascista nel senso del modernismo fascista, il modernizzatore laico della Turchia, tra il giacobinismo che evolve passando per Bonaparte e quello dove arriva. Bakù è il momento in cui il Komintern gioca questa carta, come tattica la potresti anche capire, come si potrebbe perfino capire il socialismo in un paese solo, o arrivare a quelle parole d’ordine là, ma la cosa più abietta è nella scena chiave che Koestler racconta in Buio a mezzogiorno. Il dialogo in cui Rubaciov è protagonista e che ricorda in flash back quando sta lui alla Lubianka. Il vecchio commissario politico bolscevico era andato a notificare al giovane clandestino del partito comunista tedesco di Amburgo che viveva nascosto facendo il proiezionista come in Nuovo cinema paradiso,  l’espulsione dal partito perché non si era riconvertito rapidamente e non era stato d’accordo con il fatto che da un giorno all’altro bisognava diventare crumiri, passare dall’essere i più coraggiosi nel boicottaggio a rompere lo sciopero perché era stato firmato il patto Molotov-Ribbentrop. Il fatto si potrebbe ancora capire, ma di colpo chi era turbato, diventava sospetto, traditore. Terracini se l’è cavata per il rotto della cuffia, ma Valiani racconta che da un giorno all’altro tremila comunisti di Ventotene gli tolsero il saluto, e non è che erano cattivi, erano manipolati, una mostruosità contro sé stessi innanzitutto. Così settant’anni dopo si recupera Bakù, potrebbe andare come tattica ma diventa un’etica, Zinoiev che leva la spada e dice che l’Islam è rivoluzionario intrinsecamente, sono cose che durano da allora.

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26 août 2005 5 26 /08 /août /2005 00:00

Una sera in un grande dibattito a Parigi ero uno dei pochi completamente d’accordo con i due contraddittori, Baudrillard e Virilio, che pure erano d’accordo nel dire che le coppie funzionano così, la crisi dell’est è anche l’inizio della crisi del poloovest, tutto il discorso ormai banale sulla carenza da nemico. In Italia l’unico ad averlo capito tra i politici era stato Cossiga. Craxi si era illuso che fosse giunto il momento della sua vittoria, ma si sbagliava. Perché immediatamente compare un altro motivo di inquietudine. Ci sono sempre i temi che dominano una certa epoca, io ricordo negli anni ’50-’60 il rischio dell’olocausto nucleare. E compaiono i primordi di quello che oggi si chiama l’unilateralismo, l’egemonismo americano: la guerra del Golfo in qualche modo introduce il criterio della guerra giusta, della guerra del diritto. E persino Ingrao arriva a dire una stronzata come capiremmo se fosse un’operazione di polizia internazionale, ma non proprio la guerra*, quando era esattamente il contrario. Questo andava detto e non lo diceva nessuno. Io l’avevo scritto in un libro collettivo curato da Lefebvre.

E allora il trend, soprattutto in Italia, gira. In fondo sono le stesse persone, e di nuovo c’è solo una specie di rinnegamento del rinnegamento. Non è più molto alla moda il cinismo, quello che faceva dire a Bifo i peggiori anni della nostra vita, roba da Milano da bere. Ma invece di operare una correzione si procede con un errore simmetrico e viceversa, ed è terribile. Con la guerra del Golfo, allora comincia un’operazione in cui sul buco della lobotomia della teoria del plusvalore, si inseriscono ideologie di sostituzione che in realtà non sono delle articolazioni ma delle estensioni. La problematica dei femminismi – nella forma emancipativa – poteva essere già presente, forse poco, in Marx, ma l’ecologismo nella sua base viene da una scienza, non poteva essere presente all’elaborazione marxiana né dei suoi contemporanei, quindi è un arricchimento, e così i movimenti, sempre che non diventino quello va bene perché va bene oggi, quello invece è superato perché questo lo dicevamo da giovani.



*Del pacifismo

Il grande pacifismo  transnazionalista dell’inizio del secolo e soprattutto della sua epopea nel ’14 – e possiamo metterli tutti:  la versione alla Jean Jaures, quella anarchica o quella bolscevica – si regge sulla premessa dell’internazionalismo proletario, quello del film e del libro Uomini contro, con Gian Maria Volonté, del libro Un anno sull’altipiano, in cui il discorso è perché dobbiamo scannarci tra proletari che parlano lingue diverse mandati allo sbaraglio nella guerra di trincea da generali che ci usano come carne da cannone, e invece lo dobbiamo fare in nome e per conto di gente, che poi sono tutti cugini, e si ritrovano al tavolo della pace, e invece non dobbiamo fraternizzare fra noi, e rivolgere le armi contro il nemico, che marcia alla nostra testa. Quello era forte, ma un pacifismo senza rischi è un trucco aberrante. Il pacifismo rivoluzionario proletario, l’antimilitarista, non era pauroso e col rischio zero, diceva guerra alla guerra, e poi, con Lenin, trasformare la guerra interimperialista in guerra di classe; in guerra sociale dicevano invece gli anarchici. La premessa era quella, poi si può vincere, si può perdere. Lo testimonia la vicenda italiana, l’interventismo democratico alla Salvemini, e Mussolini, che non è un fanatico ma un avventuriero, transita per lì, finanziato dai francesi e questo gli permetterà di prendere l’egemonia di un movimento e di proporre uno specchio in cui autoriconoscersi ai cafoni del sud, come mio padre, reduci dalla guerra di trincea. Sono pochi quelli come mio padre che diventano socialisti o comunisti. A gran parte si propone una rotazione degli assi: non è più la classe, è l’Italia la grande proletaria, con il vittimismo della vittoria mutilata. E questi non si vedono più come i cafoni, i terroni che avrebbero interesse ad integrarsi con gli operai dell’occupazione delle fabbriche di Torino ma anzi li vedono come quelli che erano imboscati durante la guerra e si autodefiniscono come reduci e tutto si gioca nel diciannovismo, nella complessità della vicenda di Fiume.

Invece il pacifismo degli anni ’50 e quello della battaglia sui Pershing cos’era? Nessuno dei pacifisti solidarizzava con eventuali pacifisti sovietici, anche perché non ce ne erano, li mettevano in galera subito. Ma è diverso, si diceva che i Pershing erano intrinsecamente cattivi invece gli ss20 andavano bene. E così un certo tipo di terzomondismo,  anche quello è un’ideologia di sostituzione, non è più un corollario ma sostituisce qualcosa che è stato lobotomizzato, e quindi ecco che dal terzomondismo sviluppista si passa a un discorso Nord Sud. Conta poco se rischiano, dove nascono, a sinistra, esiti di destra, diciamo anche sul terreno del relativismo culturale o del etnoculturalismo. Si legga Dumond e la sua critica dell’universalismo, sull’individualismo dell’occidente. Sono interessanti, ma cortocircuitate volgarmente in una specie di nuova falsa coscienza ideologica politica diventano terribili, è come se ritornassero gli anni ’80 e il voltagabbanismo, ma si va – se è possibile – ancora al peggio, è una specie di malinteso, di melange di ideologie e di ritorno nostalgico un po’ snob e poi di nuovo di elementi cattogiacobini, di elementi rossobruni o di fascismo del tipo peggiore perché non riconosce le proprie fonti.

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25 août 2005 4 25 /08 /août /2005 00:00
 

La nuova filosofia e il clima da anni ’80 in Francia si vedono del tutto dispiegati, in Italia, invece, sembrano più frenati.

Questi continuano ad essere perfettamente stalinisti sul piano euristico ed epistemologico, perché comunque è come se, ancora una volta, riconfermassero la stessa dannatio memoriae di allora per tutti i comunisti diversi che erano stati già schiacciati nella storia: gli anarchici, e poi gli internazionalisti, i bordighiani, le correnti consiliariste, tutto questo pullulare che non era fantasmatico, che c’era, che ha combattuto una guerra su due fronti, contro il nemico e contro lo stalinismo. Loro in fondo continuavano con il escluso, nel dritto filo del negazionismo staliniano o maoista di tutto ciò.  

Questo tipo di arrovesciamento è proprio speculare, produce dei danni a cascata perché altre aree per bene, che potranno essere i verdi, gli alternativi, in fondo, avranno integrato questa specie di terrorismo per cui ogni fesso trattava Marx come un cane morto.  Mi viene in mente la frase di Marx che alla fine della sua tirata parricida contro Hegel fa punto e a capo: ciò detto, la gran parte dei detrattori del vecchio Hegel non gli arriva nemmeno al bordo dei calzini. Ecco così è anche per questi. Era di moda dire che Marx era riduzionista. No, erano loro che quando uno diceva operaismo traducevano ouvreirisme quello che noi chiamavamo fabbrichismo, la mitologia del capitale fisso. Leggevano le cose con le loro lenti: era un modo volgare ma in Italia  il corrispettivo è stato anche più atroce,  crudele e  limitato, con tutte le culture legate alla dissociazione, e lo dico al plurale perché ce ne sono state di tipo diverso e successivo.

Questa tendenza ha dominato negli anni ’80, certo in Francia, un po’ meno in Italia, poi nel frattempo succede quella cosa enorme, che è stata incredibilmente tamponata come deflagrazione. Quando si cominciano a svuotare i paesi attorno all’Ungheria, con la gente che va via comincia a sgretolarsi il muro di Berlino fino al crollo…. A uno come me non serviva un grandissimo teorico per pensare che era una grande occasione, e così nacque il manifesto che suggerii a Schifano, Marx finalmente libero. La caduta di questa specie di carcassa potrebbe liberare un living marxism – come dicevano gli inglesi – che torna a parlare tra le cassette di frutta, e non nel corsetto orrido, autocontraddittorio di un Leviatano in tuta blu, la stella sul berretto che è ideologico, politico, lavorista, statale e tutto quanto si può dire. E’ una provocazione dei concetti  e quindi anche delle passioni. Invece, nel bene e nel male, questo passaggio è stato attutito, e in qualche modo lo si poteva capire.

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22 août 2005 1 22 /08 /août /2005 00:00

E poi questi nuovi filosofi descrivevano l’orrore, e va bene, ma perché non hanno fatto un passo per andare a vedere nello loro pratiche dove, certo per imperizia delle membra, c’era un concentrato limitato delle peggiori cose. Invece di sparlare dei terroristi visti qua e là, avrebbero potuto intanto spiegare com’è che nella primavera del ’72, addirittura negli stessi giorni, con gli stessi slogan, avevano fatto una campagna pressochè identica loro, Gauche proletarienne, Resistance popular, e le Brigate Rosse. Un fiore sbocciato, quello della lotta armata, con il rapimento Nogret, guardione della Renault considerato responsabile dell’uccisione del militante Piero Vernè. Noi per quello facemmo uno champagne molotov a Milano. Nella stessa settimana, stessi slogan, stessa cosa per la Sinistra proletaria,  la Nuova resistenza. Il fiore qui sboccia con il rapimento Macchiarini. Avrebbero potuto rendere testimonianza, giacché non è mica così simpatico lasciar dire che questi fenomeni sono inspiegabili, oppure storie di marionette e di pupari, quando si è iniziato assieme e si è avuta la fortuna che il gollismo è stato più lungimirante, stoppandoli subito e consentendo loro di diventare intellettuali. Questo converrebbe raccontarlo, non lasciar dire che si tratta di fenomeni demoniaci*.

Sul piano della responsabilità intellettuale – quella di cui tutti lodano Bobbio quando dice l’onore dell’intellettuale critico è innanzitutto fare le bucce a quelli della propria parte  ti tocca vedere Umberto Eco, che di questo precetto tesse le lodi in una conferenza, scrivere una settimana prima delle elezioni del 2001 con toni da Vicijnski che chi non si schierasse in modo secco, binario in quella battaglia campale (fosse anche uno astensionista da sempre perché anarchico), sarebbe responsabile di ignavia intellettuale, da rigettare nelle pattumiere.

Per tornare ai nuovi filosofi, ma che cos’è il rapimento Moro dal punto di vista intellettuale ed etico rispetto all’operazione famosa su Bruny an Arthiose, che è una città al Nord della Francia in cui era stata violentata e uccisa una bambina di sette anni e c’era un’inchiesta in corso e la Gauche proletarienne decise di investire il paese, affermando un teorema che il colpevole non poteva che essere stato per motivi evidenti il notaio della cittadina, notabile e gollista. Perché i ricchi mangiano carne e quindi sono più aggressivi e quindi potenziali violentatori. Avrebbero fatto meglio allora arbitrariamente ad ammazzarlo – come fece qualche anno dopo Raffaele Cutolo contro un pedofilo prosciolto dalla magistratura ma condannato dalle voci di piazza – ma non ebbero la forza nemmeno di fare quello. No, organizzavano i pullman delle guardie rosse per reclamare dal tribunale della repubblica francese la condanna del notaio. Quello è l’orrore. Intanto parlare di questa storia ignobile sarebbe stato formidabile.  Invece di sproloquiare sulle Brigate rosse o la Raf o Action directe Serge Julie, direttore di Libé, avrebbe fatto meglio a fare i conti con una storia che crea imbarazzo ancor’oggi, tra la gente che è stata sessantottesca ma non c’entrava niente perché magari era trotskista o libertaria.

Non era un buon clima quello dei nuovi filosofi perché questo sprecarsi e passare da una certezza all’altra è come oscillare tra la certezza scientifica e la superstizione della sua messa in sospetto, che è diversa dalla messa in dubbio.



*I francesi e l’Italia

Non vi ricordate quello che diceva Guattari  nel ’77, quando venne a Bologna? Diceva che c’era il fascismo, che somigliava più al gulag, che c’erano i carri armati di Zangheri. E’ come una compulsione, gli hai spiegato tutto, vanno d’accordo con te ma alla prima occasione li incontri e ti dicono, ah, adesso sì sta cadendo il governo e non sanno che di governo ne stanno rifacendo un altro e io dico sì, può essere anche che promuovano e quindi promoveatur ut amoveatur Castelli che è particolarmente roccioso, ma anche se ci fossero le elezioni, e vincesse la sinistra  che vi credete… Violante è quello che è, e poi ti lanci in discussioni, come mi è successo, e quindi devi dire che purtroppo loro non potranno mai capire l’Italia perché non c’è stata una vera grande opera che spiegasse due fenomeni che sono incomprensibili ai francesi, ma ci vorrebbero delle ricerche del Mulino. Una sulla Democrazia cristiana, l’altra sul togliattismo.

Togliatti non è banale, non è Marchais, non è soltanto stalinista. Proprio nel suo stalinismo si dispiega la differenza con Thorez, che era commissariato dal Comintern, mentre Togliatti ne era un dignitario. Un melange incredibile e sui generis. E’ chiaro il peso della parola stalinistica, proprio il catechismo da filosofia del trattino, I principi del leninismo, ma che si va a miscelare con l’hegelismo, uno storicismo liberale in versione Croce. Togliatti come un’idrovora recupera tutto degli aspetti di modernizzazione e di politicizzazione di massa che il fascismo aveva realizzato. Non solo per la Lettera ai fratelli in camicia nera, quella si poteva dire ancora la tattica, ma per la capacità di risucchiarsi L’uomo qualunque. Tanto antiamericanismo con il k, quanto ignoranza del plusvalore. Tanta revanche: siamo una colonia americana. Sono aspetti che erano miele per  il patriottismo ripiegato in esterofilia, e in accumulo di frustrazioni. Ci sono elementi di giacobinismo, di socialdemocrazia non dichiarata, elementi di cattolicesimo politico. E poi una terza grande ricerca andrebbe stimolata, gli intellettuali, integrando per esempio come problema, la critica di Makhaïski, che è un autore bolscevico poi divenuto a cavallo tra l’800 e il ’900.

Ti tocca spiegare questo ma il terrore è più forte di loro. Adesso non c’è più Berlusconi che vuole venirtelo a prendere e quindi ti accorgi che proprio è più forte di loro. Oppure ti dicono chi sa quali trattative segrete ci sono stati tra il governo italiano e quello francese sul problema della centrale nucleare mondiale. Siccome ignorano il concetto di plusvalore, l’arcano della produzione, come direbbe Marx, e anche che cos’è uno Stato e la ragion di stato, devono pensare ai complotti, complotto contro complotto, ma il segreto è che non c’è segreto, dice Henry Lefevbre citando Nietzsche, e cioè l’opacità totale, il capitale e lo stato ne sono il luogo, oppure la trasparenza talmente trasparente che abbaglia. Che problema c’è, quello è, basta quello, cosa bisogna andare a cercare?

 
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19 août 2005 5 19 /08 /août /2005 00:00

Prendiamo quindi i postsessantottardi,  quelli acceduti all’esercizio della pontificazione. Non sto polemizzando su quelli diventati, riconosciuti socialmente o anche quelli semplicemente guru di un gruppuscolo. Negli anni ’80 trionfa l’effetto choc della scoperta più o meno progressiva di quella che qualcuno potrebbe chiamare la grande illusione. Comincia come per caso a livello largo, un po’ dopo la morte di Mao Tsedong, il processo alla banda dei Quattro con la condanna a morte (non eseguita) di Qianqing che invoca il diritto alla rivolta permanente per abbattere l’imperatore, l’orrore progressivo per l’esito dei Khmer rossi e quindi il polpottismo. In Francia precipita nella nuova filosofia, leggermente abietta. Non per l’aspetto, che rende più pericolosi individui prima maoisti e successivamente divenuti, via Althusser, marxisti-leninisti. No, è il fatto di mettere in crisi tutto –  e questo potrebbe essere ancora un passo avanti – ma soprattutto Glucksmann ripropone immediatamente una mistificazione perfettamente stalinista,  ribadendo una logica  rigorosamente binaria. Perché se l’orrore –  e solo quello – è il comunismo, allora non si può che diventare liberali o socialdemocratici.


Siamo ancora nella coppia oppositiva comunismo-anticomunismo da guerra fredda, che è la cosa che potevano dire all’unisono Voice of America e Radio Mosca. Ma questa idea riduttiva del comunismo aggrada tanto a Berlusconi quanto al professor Luciano Canfora. Uno può dire che il comunismo è (scherzo) quelli che mangiano i bambini, e allora il primo dice guardate che orrore, l’altro replica no i bambini bisogna proprio mangiarli, è necessario, ma in fondo sono d’accordo. Sto banalizzando, ovviamente. Invece i nuovi filosofi ne traevano immediatamente la conseguenza che è la rivoluzione che fa male alla salute mentale ed etica,  ed è proprio lì, nel messianesimo, la radice del male. Ma io penso che di messianisti ce ne sono tanti, da Adam Smith a Benjamin (sublime), agli autori della Costituzione americana che promette la felicità, ma non proprio Karl Marx*.
 

Non è stato mica lui a promettere il paradiso sulla terra, quello è un verso di Heinrich Heine  vogliamo il paradiso su questa terra. Dove si trova una riga, dove il dottor Marx abbia scritto una cosa del genere, che magari è bella in un poeta, ma sarebbe terribile in un manifesto per la critica e per l’azione.



*Economia e crisi

Faccio una domanda ai miei antichi maestri. Si può dire che al momento del dibattito attorno ai cosiddetti classici dell’economia, Ricardo, Smith, Maltus, Marx, valeva la formula dell’economia come la scienza che nasce per  risolvere il problema di risorse limitate e bisogni crescenti (e si pensava soprattutto all’incremento della demografia)? Oggi, invece, le risorse possono essere limitatissime e decrescenti (a cominciare dalla biosfera), e questo cambia il dato ma, al contempo, vediamo un surplus di bisogni? La capitalizzazione è stata formidabile eppure si vede che qualcosa è andato cambiando. Non è vero che la sua dinamica si soddisfa; invece, la sua passione per il consumo, per il denaro, è senza fondo. Non è vero che il suo modello è la sazietà ma la bulimia: è un’economia tossicomane. Mica c’è un big brother: se si potesse estendere il modello fordista di produzione dei beni di consumo, potrebbe anche andare  bene, ma il modello della diffusione dei beni di consumo durevoli, che ha funzionato come volano dell’economia negli anni ’60 in Europa e in una piccola parte del mondo, come impatta sulla dimensione demografica dei sei miliardi di persone? E’ chiaro che il crollo catastrofico ecologico sarebbe l’esito prevedibile, dunque si punta ad altre modalità. L’eroina diventa il paradigma delle merci, merci riservate a pochi e per gli altri, chi è tagliato fuori dal consumo, potrebbe valere l’ipotesi dello sterminio.

Noi eravamo più versati sul terreno della critica del lavoro, ma la critica del feticismo della merce nel senso ripreso dalla scuola di Francoforte e dai situazionisti, ce l’abbiamo presente. In qualche modo uno può dire che già l’automobile è una catastrofe, le ferrovie sono una catastrofe, i neoprimitivisti dicono che in fondo la caduta è cominciata da quando c’è stata la stanzialità, il passaggio da cacciatori ad agricoltori, e poi in qualche modo la parola, il computo, i numeri… Uno può pensare che forse, senza anacronismi, si vivrebbe meglio come si vive nel Tibet, però diciamocelo: pur nel suo carattere alienato e feticistico, quando l’automobile entra nella vita di tanti, uno per un po’ trova soddisfazione. Ma ormai c’è il proporre continuamente uno spasmo nella forma del doppio legame.

Le sigarette che dicono fumami, guardami che bel pacchetto, tu devi morire. Come la promessa attraverso l’ingegneria genetica di correggere le malattie, portare il rischio al limite dello zero o ritardare le frontiere della morte, eppoi ti dicono loro stessi le società che invecchiano, i pesi morti, le genti che vegetano, i vecchi che ancora devono assistere i loro genitori, l’accanimento terapeutico. Ti propongono i telefonini e poi contemporaneamente devi comprare gli accessori per non farti venire il cancro e  se poi non cambi subito la marca diventa un’ossessione. Non sto facendo dell’anticonsumismo, ma viene dato sempre un doppio codice, sul mercato vero e proprio, e su quello politico delle correnti sociali, di questa industria della paura, del terrore dell’autoterrore. Non siamo un po’ uno specchio di questo assurdo, di questa economia politica dell’assurdo, in cui l’idea penale è l’unica idea forte, l’unico pensiero forte. Non sto facendo un discorso di inserire dosi di psicocritica, ma, per dirla con Deleuze, tra critica e clinica. Potremmo interpretare tutto questo come un impazzimento psicopatologico che non poteva succedere. Datiamola al 1492, al paradosso della poesia di Pascarella con le caravelle che arrivano, vedono uno tra l’erba e gli dicono ’a bellomo, chissei, e lui chi ho da essere sono un servaggio. E’ chiaro che prima esistevano tanti mondi con le loro temporalità e potevano coesistere senza incrociarsi l’una accanto all’altra, i maya, l’impero celeste, i romani. Quando li metti tutti in comunicazione e si è fatta l’imago mundi, la mondializzazione comincia e quindi c’è il cozzo, l’incompatibilità, si deve o sottomettere o essere sottomessi.

Quando poi questo, negli ultimi 25 anni, si velocizza senza che i tempi fondamentali del cervello umano cambino e allora possono anche venire idee reazionarie, alla Ceronetti o in chiave severiniana, ma anche in chiave critica di questa corsa nihilista del capitale. Ti viene in mente l’apocalisse o allora più che della rivoluzione bisognerebbe parlare con Cesarano di sovversione come nuova forma radicale da porre. E’ quello che io vedo più sottoposto ad un rischio di apocalisse è proprio il mentale, soggetto alla forza della mondializzazione e dei suoi effetti sulla produzione di soggettività, dei modi di vita, delle passioni.

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